Un bolide che perde pezzi e rimbalza nel deserto
Un cassetto di pennarelli scarichi
Miopia
Cuffie
Squilla e vibra ma non lo sento
Skype "rispondi!"
Cuffie via
Squilla e vibra ancora ora lo sento
Al telefono con Anna per restare umano
Incapacità di monotasking
Apro il cassetto
giovedì 17 febbraio 2011
venerdì 4 febbraio 2011
Despite of my blah blah.
Io sono capace di comunicare solo in due modi: o con un'immagine, o con troppe parole.
E per immagine posso anche intendere un piccolo agglomerato di parole, ben inteso. Immagine è anche una metafora, un verso, un concetto tisico che respiri con i polmoni di un orso.
Ma le immagini che più sento vicine sono i disegni.
Il disegno nasce sbrigliato. Anche quando è un fumetto, ossia quando il disegno si incastona in una storia e per rispettare le esigenze narrative non può essere una pura espressione della mia interiorità. Io stesso non so bene cosa ci va a finire in un mio disegno, o cosa ne esce fuori quando lo si guarda. E' un pò come un figlio, che quando ha le gambe piglia e se ne va con un pezzo di te, e tu non sai nemmeno qual'è. E questa assenza di controllo è comune ai disegni e ai pensieri, che non si sa dove cominciano e dove finiscono, e che sono cavalli selvaggi che nel recinto di una frase ci rimangono nervosi e scalcianti fino al puntoacapo.
Così mi è capitato di soffermarmi sul disegno qui sopra. Di osservarlo, e di pensare: da dove viene fuori? Nella sceneggiatura leggo che il personaggio a quel punto dovrebbe esprimere una rabbia disperata. E così metto la matita sul foglio, e disegno la piega delle sopracciglia, la bocca, gli occhi. Poi finisco, inchiostro, coloro, e lo rivedo. E penso: da dove viene questa rabbia? Perchè la sento così reale? Non dipende nè dalla qualità della rappresentazione, nè dal contesto, dal quale voglio prescindere.
Ed è così che mi rendo conto che quella rabbia è mia. Non è una pura costruzione di linee e ricordi e contrazioni muscolari: è un'espressione vera. Sono la rabbia e la disperazione nelle quali mi calo pensando alla Storia recente e vivendo il presente. La rabbia nel vedere ogni sensibilità presa a schiaffi, ogni espressione banalizzata, ogni valore venduto. La noncuranza che nessuno vuole ammettere di adulare. La frustrazione di Pomigliano, di Mirafiori, dell'Aquila, di un paese intero che è condannato a ingoiare in silenzio bocconi amari sotto una pioggia di pietre e mani nascoste. E' anche l'inesprimibile paura del domani. La noia distruttiva di corsi e ricorsi storici. C'è tutto l'abisso che metto da parte perchè non serve a nessuno, che non basta per sentirsi migliori, che non costruisce niente e che cerco quindi di tenere lontano dalle speranze, con un gesto appena distinguibile dalla schizofrenia. C'è lo sdegno che mi si strozza in gola, e che fermo lì prima di vederlo congiungersi al roboare del fiume di negatività che ci trasporta tutti, ma senza dire dove.
Nelle sue lacrime che brillano, attraverso la mia, c'è la rabbia di chi mai avrebbe pensato di leggersi negli occhi disperati di un gigantesco gorilla glabro con delle ali sulla faccia.
Ma non ditelo a nessuno.
E per immagine posso anche intendere un piccolo agglomerato di parole, ben inteso. Immagine è anche una metafora, un verso, un concetto tisico che respiri con i polmoni di un orso.
Ma le immagini che più sento vicine sono i disegni.
Il disegno nasce sbrigliato. Anche quando è un fumetto, ossia quando il disegno si incastona in una storia e per rispettare le esigenze narrative non può essere una pura espressione della mia interiorità. Io stesso non so bene cosa ci va a finire in un mio disegno, o cosa ne esce fuori quando lo si guarda. E' un pò come un figlio, che quando ha le gambe piglia e se ne va con un pezzo di te, e tu non sai nemmeno qual'è. E questa assenza di controllo è comune ai disegni e ai pensieri, che non si sa dove cominciano e dove finiscono, e che sono cavalli selvaggi che nel recinto di una frase ci rimangono nervosi e scalcianti fino al puntoacapo.
Così mi è capitato di soffermarmi sul disegno qui sopra. Di osservarlo, e di pensare: da dove viene fuori? Nella sceneggiatura leggo che il personaggio a quel punto dovrebbe esprimere una rabbia disperata. E così metto la matita sul foglio, e disegno la piega delle sopracciglia, la bocca, gli occhi. Poi finisco, inchiostro, coloro, e lo rivedo. E penso: da dove viene questa rabbia? Perchè la sento così reale? Non dipende nè dalla qualità della rappresentazione, nè dal contesto, dal quale voglio prescindere.
Ed è così che mi rendo conto che quella rabbia è mia. Non è una pura costruzione di linee e ricordi e contrazioni muscolari: è un'espressione vera. Sono la rabbia e la disperazione nelle quali mi calo pensando alla Storia recente e vivendo il presente. La rabbia nel vedere ogni sensibilità presa a schiaffi, ogni espressione banalizzata, ogni valore venduto. La noncuranza che nessuno vuole ammettere di adulare. La frustrazione di Pomigliano, di Mirafiori, dell'Aquila, di un paese intero che è condannato a ingoiare in silenzio bocconi amari sotto una pioggia di pietre e mani nascoste. E' anche l'inesprimibile paura del domani. La noia distruttiva di corsi e ricorsi storici. C'è tutto l'abisso che metto da parte perchè non serve a nessuno, che non basta per sentirsi migliori, che non costruisce niente e che cerco quindi di tenere lontano dalle speranze, con un gesto appena distinguibile dalla schizofrenia. C'è lo sdegno che mi si strozza in gola, e che fermo lì prima di vederlo congiungersi al roboare del fiume di negatività che ci trasporta tutti, ma senza dire dove.
Nelle sue lacrime che brillano, attraverso la mia, c'è la rabbia di chi mai avrebbe pensato di leggersi negli occhi disperati di un gigantesco gorilla glabro con delle ali sulla faccia.
Ma non ditelo a nessuno.
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